Il lamento di Giobbe

Conoscibile, ma impenetrabile nel profondo, la sapienza di Dio è presente e assente al tempo stesso. È una questione di limite. L’uomo può arrivare a conoscere alcuni elementi se si pone in ascolto delle creature, ma il segreto della sapienza è a lui nascosto in quanto prerogativa di Dio. Giobbe, pur non comprendendo l’agire di Dio, si afferra comunque a lui. La sua disperazione diventa appello accorato al Go’el (Redentore) della sua vita (cfr 19,25) nonostante avverta il peso della sua ostilità. La fedeltà in un abbandono assoluto è quanto l’uomo può esprimere nella sua vita davanti al mistero incomprensibile di Dio. Ammette di essere peccatore come tutti, ma non può pensare che il male che lo sovrasta è frutto di una sua non rettitudine di vita. «Giobbe sa che la sua sofferenza non è una punizione e quindi non può più comprendere Dio. Ma alla dottrina della remunerazione non oppone un’altra dottrina; egli ora può solo afferrarsi, nel suo lamento, a quel Dio che  non comprende più» (C. WESTERMANN, Teologia dell’Antico Testamento). La sua esasperazione nasce dal considerare come un pegno la sua innocenza. Di fronte a Dio egli la sopravvaluta. L’incalzare del tormento e dell’oppressione da parte delle parole degli amici, parole recepite come un insulto e un maltrattamento che non hanno il minimo rispetto lo spingono a tanto: per difendersi dalle accuse di colpevolezza, esce dai limiti di un confronto personale con Dio per vivere una dimensione più ampia, quella di popolo. «La teologia della retribuzione, imposta in modo rigido, non solo distrugge la realtà tragica del male, ma alla fine banalizza anche il mistero di Dio». (D.SCAIOLA, Libri sapienziali e altri scritti). Come si può ridurre Dio a un distributore di premi e benedizioni per chi fa il bene e di castighi per chi opera il male?

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