Preghiera

stemma-img-monache-carmelitane

Presente a se stesso e ai fratelli, l’orante è l’homo vigilans, l’uomo vigilante, colui che non esaurendosi nell’immediato sa misurarsi con la lunga e paziente attesa del quotidiano esprimendo il tutto che è in ogni frammento del suo procedere senza il timore di sentirsi vulnerabile, disarmato, consapevole che le sue ferite sono piccole feritoie in cui è consentito alla vita fluire, potendo realizzare il suo fine canta all’Amore con il suo “cuore piagato”, stretto in una “fiamma che consuma e non dà pena” e disposto a chiedere, pur di accostarlo”o amato al dolce incontro rompi la tela”(cfr GIOVANNI DELLA CROCE, Cantico spirituale B, Strofe n. 14,15,38; Fiamma viva d’amore, Strofe 1,2 in Scritti, OCD, Roma 2000). Il richiamo del maestro alla vigilanza: “Vegliate!”. “Sia attento il vostro cuore!” ( cfr Mc 13, 33; cfr Mt 24,37-44; cfr Mt 26,38; cfr Lc 21,36; cfr Gv 14,1-12). Rende il cristiano un orante per vocazione. Un chiamato ad alzarsi da una posizione orizzontale, propria di colui che sonnecchia e a vivere ritto di fronte alla notte, senza annullarla ma riposando in essa facendo memoria che è possibile passare dall’imperfezione al compimento per essere specchio del suo Signore non come chi dorme, come colui che non è attento, accorto, ed è preda della paura e del dubbio, ma alla maniera di chi vegliando vive in profondità dando spessore ai suoi giorni.

Presente a se stesso e ai fratelli, l’orante è l’homo vigilans, l’uomo vigilante, colui che non esaurendosi nell’immediato sa misurarsi con la lunga e paziente attesa del quotidiano esprimendo il tutto che è in ogni frammento del suo procedere senza il timore di sentirsi vulnerabile, disarmato, consapevole che le sue ferite sono piccole feritoie in cui è consentito alla vita fluire, potendo realizzare il suo fine canta all’Amore con il suo “cuore piagato”, stretto in una “fiamma che consuma e non dà pena” e disposto a chiedere, pur di accostarlo”o amato al dolce incontro rompi la tela”(cfr GIOVANNI DELLA CROCE, Cantico spirituale B, Strofe n. 14,15,38; Fiamma viva d’amore, Strofe 1,2 in Scritti, OCD, Roma 2000). Il richiamo del maestro alla vigilanza: “Vegliate!”. “Sia attento il vostro cuore!” ( cfr Mc 13, 33; cfr Mt 24,37-44; cfr Mt 26,38; cfr Lc 21,36; cfr Gv 14,1-12). Rende il cristiano un orante per vocazione. Un chiamato ad alzarsi da una posizione orizzontale, propria di colui che sonnecchia e a vivere ritto di fronte alla notte, senza annullarla ma riposando in essa facendo memoria che è possibile passare dall’imperfezione al compimento per essere specchio del suo Signore non come chi dorme, come colui che non è attento, accorto, ed è preda della paura e del dubbio, ma alla maniera di chi vegliando vive in profondità dando spessore ai suoi giorni.

La Preghiera
ricordo di Dio

Irrequieto senza orizzonte, con fango come dimora, l’uomo del nostro tempo, scopre il suo fondamento nella leggerezza della cenere. A stento si espone alla morsura del silenzio che rinfranca con la forza della terracotta il suo barcollante protendere gravido di certezze, sazio di dubbi, nelle strettoie di un’attesa lenta verso il suo Oriente. Il grembo, come una vela al vento gonfio di un’ansia sottile è forse il segno più evidente di un disagio interiore a cui pochi sanno dare un nome. Frastuono, bagliori, tremore, agitazione, sofferenze come saette svettano scintillando ovunque mentre il nostro sentire è setacciato dalla bassa marea che mostra i cocci rotti di un passato gettato contro gli scogli della frenesia della vita quotidiana.

Chi non riesce a star dietro al batter del suo tempo, e catturato dal proprio legaccio, migra da un sentire all’altro legando o separando i deboli pensieri del sentire, viene da essa decisamente respinto. È quanto mai necessario trovare il coraggio di smentire una realtà fatta di sentire, di apparenza, di emozioni. Ora proviamo una cosa, tra un po’ ne proviamo un’altra…non potremmo reggere la veemenza dei flutti del solo e-movere, di ciò che si muove… Urge recuperare tutto ciò che fa dell’uomo il signore del tempo e non lo schiavo di un’emozione, che per quanto importante è legata a un contesto, a un luogo, che lo rende stretto a scontate tradizioni, paglia secca spazzata via in un frangente dal vento di novità esasperate. In questo vortice di turbamento l’uomo ha paura del silenzio, paura di ciò che non conosce, paura di fare silenzio, paura di sostare. Paura di ciò che non conosce e non riesce a raggiungere e che in quanche modo lo lambisce. Quando avverte qualcosa che lo sovrasta, cibo di tormento per ogni giorno della sua vita, per non far crescere l’ansia, insieme a “farmaci di tranquillità”, si protende alla ricerca di Qualcuno che sa può dargli la pace. Si apre per lui allora un varco sul bivio esistenziale. Diventa possibile una scelta. Spesso ha inizio una ritualità esatta, fatta il più delle volte di brevi sgranate preghiere, di medaglie e immaginette, di candele accese che si sommano agli amuleti; la Bibbia a portata di mano e i segni della croce scandiscono giudizi di caligine per tutto ciò che ruota intorno a momenti di panico che afferrano senza pietà. In tal caso l’ansia, il timore, la paura, sono fruscio dell’agire giornaliero. Ma… più raramente, se tende l’orecchio, entra in contatto con il ricordo di Dio. Ha inizio la sua vera storia. La storia dell’uomo.

Mi sono ricordato di Dio e ho gioito

L’uomo intravede la propria debolezza, la sperimenta e impara a conoscerla. Sant’Isacco proclama costui beato (“ Beato l’uomo che conosce la propria debolezza, poiché questa conoscenza diviene per lui fondamento, radice e principio di ogni bontà. Quando infatti uno impara a conoscere la propria debolezza e la percepisce in verità, allora concentra la propria anima lontano dalla vanità che oscura la conoscenza e tiene in se stesso come un tesoro, la vigilanza” CALLISTO E IGNAZIO XANTHOPOULI, F IV, 176-177.) e aggiunge: «L’uomo che è giunto a conoscere la misura della propria debolezza, è giunto alla perfezione dell’umiltà». È disposto all’ascolto dello shofar, che per tutti risuona, del ritorno al dialogo con Dio, del richiamo alla preghiera, della memoria Dei. Nell’arsura di serenità, approdati ai bacini dell’angoscia, avverte pungente la necessità di lasciarsi affascinare dall’Assoluto e di concedersi momenti di vita solitaria per ritrovare l’equilibrio interiore nella quiete, in quella tranquillità che non è più uno stato d’animo passeggero, bensì un modo di vivere, uno stato di vita, precisamente è il passare “dentro” il turbamento, l’agitazione, l’avvilimento, dentro il sentire per entrare in contatto con la ricerca appassionata di ciò che ci abita, della sola quiete: la pace in Dio. Risuona allora l’invito a sostare: «Fermatevi! e sappiate che io sono Dio» (salmo 46).

Sii silenzioso e avrai quiete in qualsiasi luogo abiterai

La ricerca della quiete, dell’esichia è importante per la preghiera. I padri del deserto raccomandano il silenzio: non labbra chiuse, ma mente a riposo per non lasciarsi inondare dai rumori, dalle tante voci, dalle eco delle distrazioni. Mente solitaria, poiché solo nella solitudine è possibile che il silenzio parli e operi meraviglie. E la solitudine ha un suo luogo che è figura concreta della custodia di una dimensione interiore: la cella, la stanza più intima in cui ci si dispone all’incontro con Dio. Il ricordo di Dio costante e abituale, l’orazione hanno la loro scaturigine dal sostare assiduo nel luogo del silenzio. Teresa di Lisieux racconta: «Da bambina andavo dietro al mio letto, in un cantuccio che potevo facilmente chiudere con una tenda e là pensavo, cercavo Dio» ( TERESA DI GESU BAMBINO, Scritti, OCD, Roma 2000). Il “vacare Deo”, il percepire la sua assenza e il cercarlo nella preghiera è in sé risposta ad una chiamata, ascolto incessante e vigile che non frappone i diaframmi immobili della durezza di udito, ma schiude alla voce che ci abita nel profondo: Padre nostro.

La calma non è sinonimo di umiltà; possiamo constatare che ogni uomo umile mostra calma mentre non tutte le persone calme possono definirsi umili. Sovente l’uomo di oggi è agitato, sfinito da un logorio eccessivo di parole, sembra non comprendere e poco tende l’orecchio, poco presta il cuore all’ascolto. Non apre in sé quello spazio di libertà dove accogliere l’altro significa attendere la sua parola. E il non ascolto lo porta ad usare il linguaggio degli astuti che genera malintesi, conflitti, ingiustizie, tormenti, ad accamparsi ai margini di un sentire diroccato nutrito dalle macerie suggestive di un malessere che genera un pensare privo di senno e un rodersi in quella smania che sommerge e perseguita… Appare arduo e avanzante abbassare il volume dei pensieri. La custodia del cuore invoca vigilanza e umiltà. La custodia della mente un faticoso esercizio che richiede tempo, misura, ponderatezza, circospezione ma prima di tutto impegno. Vigilanza del proprio territorio perché il sentire non sommerga l’intendere né il volere. L’attento, il vigile è l’uomo dallo sguardo limpido, purificato, passato al setaccio della “presenza”. La vigilanza consente all’orante di far si che i suoi progetti di argilla diventino fondati sulla roccia, che il sonno spirituale non appesantisca gli occhi della sua fede. Proteso verso l’ascolto interiore, “l’orientamento” dovrà seguire e talvolta precedere quest’ascolto perché nella metafora del cammino anche noi dobbiamo volgere il volto verso Gerusalemme. Allora diventa possibile vedere la gloria del Signore nonostante il sonno e la pesantezza che la notte porta con sé, perchè la vigilanza indica in particolar modo chi si oppone al torpore dello spirito al sonnecchiare della coscienza. Precisa il Vangelo di Luca (Lc 9,32) “Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; tuttavia restarono svegli e videro la sua gloria e i due uomini che stavano con Lui”. Dunque è possibile una vigilanza interiore pur sperimentando l’oppressione del sonno, pur vivendo la fragilità del nostro corpo. C’è sempre un modo di porre attenzione che non si contrappone alla naturalità del sonno, che non resta sconcertato di fronte alla stanchezza, alla debolezza ma la abita ed è capace di farne il luogo più adatto per l’esercizio della vigilanza. Il cuore vigile non è il cuore perfetto, un “super cuore”, ma è un cuore attento e allenato nella fragilità per essere attento a Dio. Nella pratica dell’Umiltà ci accogliamo come creta impastata di spirito, aderente alla terra, ma portata dal soffio dell’eterno su sentieri di verità. Privato di questo habitus, l’uomo sorseggia malvagità come acqua fresca, non trova più il suo volto e affannosamente ricerca pozzanghere in cui specchiarsi nella speranza di ritrovarsi. L’umiltà fa dell’uomo una creatura serena, che non ha bisogno di mettersi in mostra, una creatura che dà pace in quanto rappacificata con la vita e con se stessa, una creatura capace di ascolto e quindi di pronunciare parole saporose, una creatura capace di pregare. L’umiltà fa sì che l’altro circoli tra le mie idee e vi aggiunga le sue, che entrando lasci spalancata la porta della mia stanza segreta invitandomi a vivere a cuore aperto, e io mi scopra predato e donato nel dialogo dell’amore, della preghiera, del raccontarmi e farmi raccontare da Dio, dall’uomo, nella terra della mia nudità. Senza umiltà la preghiera svilisce in un monologo, precipita nell’abisso delle incongruenze quotidiane e nella sclerosi della pochezza che siamo. Solo respirando l’humus del nostro peccato possiamo accostarci a Dio. Attraverso l’umiltà sperimentiamo la distanza tra noi e Lui, e dopo aver vagato a tentoni come ubriachi barcollanti fino all’alba iniziamo a comprendere attraverso un dire semplice l’amore di Dio per l’uomo. Allora ci accostiamo al Mistero lasciando le nostre solitudini senza strada, le nostre veglie trascorse in un tormento privo di speranza, abbacinati dalla notte della presunzione accetteremo di essere luce “tenue”, quel poco che basta per segnare un passo dopo l’altro. Ricorda Isacco di Ninive: «Quando nella preghiera ti metterai davanti a Dio il tuo pensiero diventi semplice… Dio vedendo i tuoi desideri, la purezza dei tuoi pensieri che riposano in Lui e non in te, la tua speranza fiduciosa, farà scendere in te questo potere inscrutabile e tu avrai coscienza di possederlo. La coscienza di questo potere ha permesso ad alcuni di affrontare senza paura le fiamme, ad altri di camminare sulle acque con la certezza di non affondare» (ISACCO DI NINIVE, Ammaestramenti spirituali, in La Filocalia, 267, 116-117). Questa straordinaria capacità dell’umiltà, è al contempo scaturigine e frutto di preghiera così come apertura a Dio e all’uomo. Invita alla pro-esistenza, all’esserci per l’altro, ad offrire la speranza di un amore che sappia farsi presenza. Ciò avviene non solo con coloro che incontriamo e con cui viviamo ma con quanti “frequentiamo” spiritualmente nel segreto della preghiera, nel profondo della sua dimora. Ed è nel luogo silenzioso della notte che porta con se ogni breve ombra, che potremo trovare accovacciata la possibilità di un nuovo sguardo, di un’attesa “attenta”, vigile, in grado di cogliere oltre il torpore del sonno ciò che accade intorno e di percepire la vita che scorre per riconoscersi svegli nell’attesa del Veniente, Cristo Signore.

In solitudine

L’amore alla solitudine e la sua custodia è proprio della tradizione del nostro Ordine. Nel corso dei tempi e nelle diverse circostanze, ogni carmelitana ha cercato di trasmettere quello spirito col quale i primi eremiti si ritirarono sul monte Carmelo nell’ascolto orante della Scrittura, nella lettura quotidiana dei segni della presenza del Signore nel solco della vita.

Orante per vocazione

Chiamato a trascendersi, può disperdere questa spinta vitale profonda in una orizzontalità di possesso e di appagamento immediato che lo ingabbia nel recinto di risorse scontate e gli preclude la possibilità di attingere forze nuove da potenzialità per lui ignote, ma pur suo patrimonio costitutivo. Eletto per vocazione a ruminare nel cuore la parola che come seme che germoglia alla contemplazione è forza invocante lo Spirito e parola con cui Dio parla all’uomo, l’orante è colui che si applica alla lettura amorosa delle Scritture. L’uomo, se, «dopo aver purificato il suo cuore, riceve la parola di Dio e dimora in essa (cfr 2 Gv 9), emette pensieri buoni, così che i comandamenti di Dio dimorano in lui» ( Vita e detti dei padri del deserto, II, 269, 20, Roma 1975). È la fecondità della preghiera autentica. Nel segreto di una vita in abbondanza, scandita dal ringraziamento e dalla domanda, dalla supplica fino alla contemplazione, la preghiera porta al raggiungimento della propria completezza, della maturità, all’essere ciò per cui siamo nati: uomini e donne unificati dal dono dello Spirito. Un modello di sviluppo di una vita di preghiera che orienta l’agire può essere quello della spirale: ad ogni fase si assorbono le fasi precedenti e si procede verso un più alto livello di integrazione. Un modello che esprime continuità dinamica. È un cammino “intelligente”, tracciato dalla grazia che trova disponibilità interiore e apre a una vita senza fine, il volto di Dio in noi, un’acqua viva che mormora il proprio nome proveniente dalle sorgenti pure dell’essere. Allora potremo rendere visibile il “nostro uomo”. Lo scriveva Teofilo di Antiochia nel suo dialogo con il pagano del suo tempo: «Se tu mi dici: “Mostrami il tuo Dio”, io potrei risponderti: “Mostrami il tuo uomo, e io ti mostrerò il mio Dio”» (Cfr B. CHENU, Tracce del volto, Ed. Qiqajon, Comunità di Bose, Magnano BI 1996,p.175) . Il volto dell’uomo ha in sé i tratti del suo creatore. La preghiera consente di vedere con occhi luminosi il volto di Dio nei fratelli. Il rapporto in cui l’uomo trova la pienezza del suo essere è quello con il divino, quindi con un tu che non sia alla pari, ma che sia all’origine della sua esistenza, la fonte da cui riceversi, Colui che egli prega. Non è l’alterità orizzontale l’ambito in cui l’uomo trova il suo accesso a Dio. Solo dopo aver delineato i confini della propria autonomia da Colui che lo ha creato, solo pregando l’uomo può decifrare nel volto del fratello l’immagine di Dio. A questo punto possiamo capire dove sia andato a nascondersi un uomo che non ha messo in opera il suo essere dominus dei suoi pensieri, sentimenti, esperienze, ma ne è rimasto soggiogato, imbrigliato in una preghiera di parole, suoni e poco cuore… dove sia andato a ritrovarsi un uomo che si è specchiato nella pozzanghera del possesso e della fuga da un impegno di giustizia… dove sia andato a cadere un uomo che invece di custodire il creato e i suoi fratelli ha tentato di espropriarli della loro dignità per sentirsi padrone.

Saltem frequenter in vita

Quante volte la nostra preghiera è un lasciar sostare lo sguardo sul male del mondo, dimentichi della croce di Cristo: ci si consegna alla disperazione. Solo il non senso possiamo incontrare se, accovacciati alla sponda del male, come spettatori sprovveduti, spezziamo le reti della delusione nella pesca di una beneficenza spicciola. Dalla sponda del male non giunge altra risposta che pianto e lamento. La lontananza da Dio, la ribellione dell’intelligenza ostinata dell’uomo, la rivendicazione d’autonomia da lui, hanno solcato di male la storia degli uomini che dalle profondità di un sentire trasceso si fa «voce che grida all’uomo fino al suo ultimo respiro: oggi convèrtiti» (Vita e detti dei padri del deserto,II,223,10,Roma 1975). Si ha la presunzione di poter pregare per il male che ci affligge, ci schiaccia, ci divora, senza considerare la croce di Cristo, provvisti solo del nostro dolore. Se impariamo a pregare davanti al Crocifisso intravediamo l’amore di Dio per l’uomo, Cristo diventa la nostra preghiera, è il cuore della preghiera. Impariamo a ringraziare per ogni cosa: per il tribolare e il patire, per tutto ciò che ci accade e che accade al fratello, perché noi dobbiamo entrare nel regno attraverso molto soffrire, confortati dalla fede che ci consente di vedere «le prime luci del sabato» (Lc 23,54). Memore di quelle parole: «Tuo fratello risorgerà» (Gv 11,23), l’uomo di ogni tempo potrà costruire accampamenti di amore nella fatica delle attività più ordinarie, nello svolgimento dei compiti di ogni giorno, nella santificazione della ferialità, in quella preghiera dell’oggi e dell’attesa che non ha più parole.

Oggi, convèrtiti

In un mondo fatto di ombre e di silenzio in cui le voci una dietro l’altra terminano la loro corsa affannosa, in quel mondo interiore che assale e carpisce, e insidiosamente intrappola il pensiero in un sentire mostruoso, la bellezza dell’integrità umana non può che raccontare l’invito cocente della liberazione dai ceppi di sé per ripercorrere il sentiero dell’allontanamento e tornare alla fonte. Oggi convèrtiti.La metanoia è dono di Dio, origine e frutto delle opere della fede, prima fra tutte la preghiera. A volte il dolore lascia segni indimenticabili che solo la frequentazione assidua della preghiera può sanare. Tornare indietro è più facile che andare avanti perché la memoria dei fallimenti, delle angosce, delle paure è esperta di precisione.«Io mi sono schiantato sui tempi di cui ignoro l’ordine, e i miei pensieri, queste intime viscere della mia anima, sono dilaniati da molteplici tumultuosità». (AGOSTINO, Confessioni, Libro XI, 30.39) Esperienza di un uomo simbolo, Agostino, che ha letto il segreto di Dio sugli scogli di una vita che si è scoperta preghiera, sui sentieri della sua interiorità dopo essersi disperso in una ricerca estranea al suo essere. È l’esperienza dell’uomo di tutti i tempi. Incredibile quest’uomo che non si finisce di mai di scoprire! Mistero di pienezza e fragilità, parabola di un cammino che lo porta via da se stesso alla scoperta del suo significato. Vive, ma non può definire la sua vita, se non scrivendo pagine di storia, pagine sacre o pagine maledette, pagine che strappa e pagine che ricostruisce. Il percorso dell’esistenza, questo ricucire oggi ciò che sembra essersi lacerato per sempre è l’avventura meravigliosa della preghiera. Restituire l’uomo a se stesso, quale compito più alto? Restituirlo alla bellezza, al bene, a ciò che è vero e non tramonta. È un cammino di ricerca in cui l’uomo chiede di non andare solo per non smarrirsi ancora, un cammino in cui l’uomo si fida di un altro uomo, fragile come lui in quanto figlio dell’uomo, Salvatore per lui in quanto Figlio di Dio: un uomo che può indicargli la strada del ritorno. Anche questo esperire è preghiera. L’orante guarda, osserva, acquisisce la capacità di vedere. È la preghiera a trasformare lo sguardo, ad aprire la coscienza alla precarietà della vita, alla pienezza della comunione con i viventi e Dio. Pensiero purificato, occhio limpido, mente desta. Colui che non si sottrae alla conversione, ma persevera nell’orazione sa vedere Dio, sa riconoscerlo nelle Scritture, nella mensa della Parola e del Pane, in ogni cosa. «L’anima purificata dalle passioni e illuminata dalla contemplazione delle cose ultime dimora in Dio e la sua preghiera è vera». (MASSIMO IL CONFESSORE, Quattro centurie sull’amore, in Filocalia, 131,100.

Chi prega, somiglia a un esploratore

Preghiera professione Duomo Sovana «Dio ha creato l’uomo come un “esploratore” (Qo 1,13) perché cammini verso la verità e nulla lasci di intentato nonostante il continuo ricatto del dubbio» (FR 21). Chiamato a valicare i limiti di una conoscenza naturale e sensoriale attraverso della fede e le opere della fede, l’uomo smarrito, scettico e incredulo può ritrovare la fiducia nella sua capacità di riflettere criticamente sui dati del reale e sul senso della vita: Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Perché il male? La capacità metafisica dell’uomo fa di lui monastero_carmelitane11un orante per sollevare lo sguardo e volare in alto verso la verità. Motore di questo volo è la preghiera. Per rispondere all’inquietante domanda di senso che si annida nel suo vivere l’uomo tenta di acquisire una conoscenza profonda e realistica di sé, delle proprie potenzialità e dei propri limiti, unitamente a una certa consapevolezza della propria personalità, al fine di orientare al raggiungimento dei suoi ideali in modo costruttivo tutte le energie a sua disposizione. Attraverso la preghiera assidua si scopre orientato verso il bene assoluto, questo tendere «sorge dall’intuizione e dall’esperienza della creaturalità e dai limiti della persona che anela a trascendersi per giungere alla pienezza della propria personalità». La preghiera consente di assimilare progressivamente i valori, liberamente scelti, ordinati a cercare la trascendenza di sé e non la propria gratificazione, tende naturalmente al suo fine ultimo, Dio, Bene desiderabile in se stesso, degno di essere amato, cercato, Libertà infinita in cui ritrova la sua libertà di figlio nel Figlio: «Noi riceviamo da Lui, che è la norma concreta e perfetta di ogni attività morale, la libertà di compiere la volontà di Dio e di compiere il nostro destino di figli liberi del Padre» . Libero e fragile, aperto all’Assoluto ma tentato dal relativo, l’uomo che prega, interiorizzando i valori eterni in vista di una sempre più ricca risposta personale all’amore del Signore, assume la responsabilità della sua vita mediante scelte libere e consapevoli in risposta all’appello che Dio rivolge a ciascuno. Infatti «Dio non ha voluto creare un museo, ma un universo vivente e libero che si crea o si discrea. Ciascuno è fonte di un potere creatore, fonte di un superamento possibile, capace di mancare alla sua dignità».
Preghiera professione Duomo Sovana «Dio ha creato l’uomo come un “esploratore” (Qo 1,13) perché cammini verso la verità e nulla lasci di intentato nonostante il continuo ricatto del dubbio» (FR 21). Chiamato a valicare i limiti di una conoscenza naturale e sensoriale attraverso della fede e le opere della fede, l’uomo smarrito, scettico e incredulo può ritrovare la fiducia nella sua capacità di riflettere criticamente sui dati del reale e sul senso della vita: Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Perché il male? La capacità metafisica dell’uomo fa di lui monastero_carmelitane11un orante per sollevare lo sguardo e volare in alto verso la verità. Motore di questo volo è la preghiera. Per rispondere all’inquietante domanda di senso che si annida nel suo vivere l’uomo tenta di acquisire una conoscenza profonda e realistica di sé, delle proprie potenzialità e dei propri limiti, unitamente a una certa consapevolezza della propria personalità, al fine di orientare al raggiungimento dei suoi ideali in modo costruttivo tutte le energie a sua disposizione. Attraverso la preghiera assidua si scopre orientato verso il bene assoluto, questo tendere «sorge dall’intuizione e dall’esperienza della creaturalità e dai limiti della persona che anela a trascendersi per giungere alla pienezza della propria personalità». La preghiera consente di assimilare progressivamente i valori, liberamente scelti, ordinati a cercare la trascendenza di sé e non la propria gratificazione, tende naturalmente al suo fine ultimo, Dio, Bene desiderabile in se stesso, degno di essere amato, cercato, Libertà infinita in cui ritrova la sua libertà di figlio nel Figlio: «Noi riceviamo da Lui, che è la norma concreta e perfetta di ogni attività morale, la libertà di compiere la volontà di Dio e di compiere il nostro destino di figli liberi del Padre» . Libero e fragile, aperto all’Assoluto ma tentato dal relativo, l’uomo che prega, interiorizzando i valori eterni in vista di una sempre più ricca risposta personale all’amore del Signore, assume la responsabilità della sua vita mediante scelte libere e consapevoli in risposta all’appello che Dio rivolge a ciascuno. Infatti «Dio non ha voluto creare un museo, ma un universo vivente e libero che si crea o si discrea. Ciascuno è fonte di un potere creatore, fonte di un superamento possibile, capace di mancare alla sua dignità».

Pienezza di vita

Il comandamento dell’amore, sintesi mirabile della shekinah (presenza) di Dio, realizzato in Cristo, verbum salutis, sarà sempre l’oggetto attraente della volontà dell’orante, il fascino irresistibile che lo porta al telos del suo cammino: la comunione perfetta con Dio e con i fratelli. «La natura intelligente della persona umana può e deve raggiungere la perfezione. Questa mediante la sapienza attrae con dolcezza la mente a cercare e ad amare il vero e il bene; l’uomo che se ne nutre è condotto attraverso il visibile all’invisibile» (GS 15 ). Nella follia della croce è racchiuso il segreto del Mistero lì dove il paradosso dell’Amore che disarma parla del Padre di misericordia, e ci conforta nel sentiero della vita affidarci a Lui sapendo che «restiamo nella notte, ma sotto le stelle». Al di là di tutti gli enigmi, le incognite, le tortuosità, le curve della sorte umana nel mondo, la verità sull’uomo che Dio ha scritto nelle pagine di una storia straordinaria di salvezza si afferma nell’esperienza di un’umanità nuova, quella di Cristo, in cui l’uomo è chiamato a partecipare in pienezza alla vita di Dio (2 Pt 1,4). Nell’inquietudine creativa dell’uomo, generata dalla consapevolezza del limite della temporalità, pulsa ciò che è più profondamente umano: il desiderio del ritorno alla Fonte della propria immagine, la nostalgia di ricongiungersi con Colui da cui ha ricevuto l’impronta dell’essere. Questa nostalgia è preghiera. L’uomo è davvero un essere visitato, una dimora aperta all’ospitalità in nome di quella somiglianza con Dio che lo rende capace di custodire l’autenticità della vita, diventando per le cose, gli eventi, le persone icona di preghiera. La biografia dell’uomo è una crescita fino a quando non si identifica con la parola che Dio ha pronunciato a suo riguardo, Parola di vita che non tramonta. La persona umana resta l’ambito privilegiato per l’incontro con l’Essere.