Lavoro monastico: luogo dello Spirito

In questi appuntamenti sul blog, cerchiamo di raccontare la gioia, la bellezza, l’impegno della sequela nei risvolti esperienziali della nostra vocazione contemplativa, claustrale, carmelitana. Spennelliamo qua e là per far giungere un tocco di colore e calore nell’animo di chi legge, ma ci accorgiamo di quanto sia difficile tradurre in poche parole l’abbondanza di una vita vissuta in estrema semplicità ma tutta orientata, trascinata, assorbita dal desiderio del Suo Volto. Infatti, anche se abbiamo parlato di questo o quell’altro aspetto della nostra vita, notiamo sempre di non aver detto tutto, di aver trascurato o tradito qualcosa… perché niente al Carmelo è privo di significato e, veramente, ogni sfumatura esprime l’anelito profondo di una vita vissuta in Dio nel respiro dell’intercessione. Ed eccoci, allora, ritornare sul tema del lavoro nella vita monastica per evidenziarne in particolare, questa volta, la dimensione spirituale. Può essere il lavoro, preghiera? Nella vita monastica molte ore sono dedicate all’azione liturgica comunitaria, la giornata ruota attorno alla meditazione della Parola e la preghiera personale, nutrita di silenzio, custodita dalla solitudine della cella, liberata dagli spazi verdi e dai ritmi plaudenti della natura, riempie ogni angolo dell’esistenza; non di meno il lavoro che ci allontana dal coro e, a volte dalla stessa cella, per la claustrale è comunque luogo della ricerca di Dio. Giovanni Paolo II nella lettera apostolica “Sanctorum altrix” così afferma: “ Il monaco, non malgrado il lavoro che compie, ma anzi attraverso il lavoro stesso, si congiunge a Dio, poiché ‘mentre lavora con le mani o con la mente, si dirige sempre continuamente a Cristo. E così accade che il lavoro, anche se umile e poco apprezzato, tuttavia arricchito di una certa qual dignità, viene intrapreso e diventa parte vitale ‘di quella ricerca somma ed esclusiva di Dio nella solitudine e nel silenzio, nel lavoro umile e povero, per dare alla vita il significato di una orazione continuata, di un ‘sacrificium laudis’, insieme celebrato, insieme consumato, nel respiro di una gaudiosa e fraterna carità. Attraverso il nostro lavoro cerchiamo l’unione con Dio, perché mentre le mani o la mente si adoperano per questo o quel servizio, il cuore si dirige sempre verso Cristo. Certo, il lavoro ha indubbiamente un valore importante per la nostra sussistenza, è mezzo ascetico, ci rende solidali con ogni uomo di buona volontà che si guadagna il pane con il sudore della propria fronte, manifesta la nostra volontà di collaborare con Dio per il compimento dell’opera della creazione permettendoci di esprimere doti e creatività….ma è prevalentemente una via privilegiata per il rapporto con Dio e il servizio ai fratelli. Il lavoro che la comunità affida a ciascuna, diviene conoscenza esplicita di ciò che il Signore chiede e ci pone nelle condizioni di una risposta generosa dentro le concrete condizioni in cui ci troviamo. Dio si lascia cercare e trovare in ciò che facciamo con fedeltà, senso del dovere, gratuità. L’unione con il Signore non avviene dunque fuori dal quotidiano, ma all’interno della nostra storia e del nostro piccolo servizio mentre manteniamo il cuore fisso in Dio e carico del desiderio di salvezza per tutti. Il lavoro in monastero, qualunque esso sia: faccende domestiche, accudimento delle sorelle anziane e ammalate, cura dell’orto o degli animali, lavori di artigianato vari (come, per esempio, confezione di abiti o paramenti sacri, creazione e decorazione di candele, scrittura di icone o preparazione di marmellate…. ecc)., allor quando è conforme alla volontà di Dio, è lode, preghiera, culto spirituale, tacita invocazione del cuore che si impegna a purificarsi da ogni seduzione. (“Signore, togliete dal mio cuore tutto ciò che non appartiene all’amore”. Perché “è nel difetto dell’amore che ci attacca il Maligno” ! A. Gide). La dimensione contemplativa della vita che il Signore ci affida per vocazione esige, allora, un costante cammino di maturazione oggi particolarmente sollecitato dalla mentalità efficientistica e utilitaristica che caratterizza il pensiero comune. Da un versante è importante impegnarsi nel lavoro valorizzando tutta la sua carica formativa e spirituale senza tuttavia scontare i tempi di preghiera formali usando l’alibi del “lavoro-preghiera”; dall’altro versante però è importante non entrare nella stessa crisi espressa dal famoso detto attribuito ad Antonio, quando questi viene sollecitato a ripensare la sua condizione, da un angelo inviato dal Signore che egli vede «come lui, che sta seduto e lavora, poi si alza dal lavoro e prega, poi di nuovo si siede e intreccia la corda, poi di nuovo si alza per pregare» (Antonio, 1). In altri termini così come l’angelo intreccia la corda per le stuoie o le ceste, così noi dobbiamo intrecciare preghiera e lavoro per vincere la tentazione di «crederci angeli», di sfuggire alla condizione umana, di idolatrare le nostre ascesi cedendo a un insano spiritualismo. Qui entra in gioco la capacità di vigilare a cui siamo chiamate continuamente per trovare, in modo sempre nuovo, l’armonia tra preghiera e lavoro, per rimanere fedeli al mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio, continuare a incarnarci nel giusto modo nel nostro oggi e, contestualmente, essere protese alle cose di lassù. Intrecciare la corda del lavoro e della preghiera…. Rendere il lavoro luogo di mortificazione, di ascesi penitenziale ma soprattutto luogo di conversione, di liberazione, di maturazione umana e spirituale. Così inteso il lavoro nella vita monastica, supera la logica della realizzazione di sé, e permette di entrare nella consapevolezza che la realizzazione personale esige il passaggio dalla ricerca di se stesse alla disponibilità a donare se stesse, secondo il criterio evangelico del perdere la vita per trovarla, dello spenderla per guadagnarla… Vivere l’espropriazione da se stesse per andare verso una oblatività umile, obbediente, la quale paradossalmente poi consente la piena realizzazione, proprio perché converte il cuore dalla logica del possesso a quella del dono della propria vita. Nella vita comunitaria carmelitana l’ambito del lavoro è uno dei luoghi importanti in cui siamo educate a vivere questa conversione. In conclusione: se è importante, come affermavamo sopra, vigilare affinché il lavoro non sia eccessivo, svolto male o comprometta gli altri impegni essenziali nella nostra vita, è altrettanto necessario far sì che il lavoro contribuisca alla formazione della carmelitana e la renda spiritualmente matura. Infatti, la verità del cammino di ciascuna è visibile nel modo di stare in coro, in comunità o in cella ma anche nei luoghi di lavoro e negli incarichi assegnati. Un lavoro vissuto in modo maturo può educare e configurare un autentico vissuto spirituale e la disciplina del lavoro può formare una disciplina spirituale.

2 Commenti
  • francesca cattaneo
    Pubblicato alle 20:12h, 03 Settembre Rispondi

    Grazie, perchè nonostante la nostra vita non è vissuta in monastero, questi pensieri ci aiutano a guardare anche al nostro lavoro da un’angolazione nuova e a dar maggior significato a ciò che svolgiamo.

  • NINA STARO
    Pubblicato alle 21:17h, 04 Settembre Rispondi

    Bellissima l’immagine”Intrecciare la corda del lavoro e della preghiera”! Rappresenta un monito per ciascuno di noi,

    perché la vita non si risolva in un attivismo vuoto, privo di significato, ma sia un’elevazione costante a Colui che

    con la vita ci ha elargito tanti doni che riveliamo attraverso il lavoro, che non deve essere motivo di gratificazione

    personale, ma di ringraziamento continuo a Dio e di donazione di sé agli altri.

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