Essere sorelle

La freccia e il Punto fermo:
Il dono esigente dell’essere sorelle

Pilastro portante su cui poggia la vita al Carmelo è la comunità. Siamo sorelle che vivono nello stesso monastero, insieme per cercare Dio, per camminare verso la santità, per divenire un cuor solo e una anima sola, per servire la Chiesa attraverso il minstero dell’intercessione. La nostra è una modalità di vivere la fede in cui il percorso personale sulle tracce di Gesù, nell’ascolto della sua Parola, nella preghiera, nel silenzio, nel lavoro svolto prevalentemente in modo solitario e, quando è possibile in cella, è costantemente orientato, in forma obbedienziale, alla centralità di un proposito condiviso, forza di quella rinuncia personale ad essere il centro di se stesse e spinta a convenire verso quello spazio dentro cui ogni sfaccettatura della propria chiamata vive, cresce, si rinvigorisce, si purifica. Con slanci di idealità e ganci ben piantati di concretezza, desideriamo vivere il vangelo con le sue richieste di abnegazione, di “uscita da se stesse”, di dono. Per questo ci riconosciamo sempre in evoluzione, umanamente immerse in un quotiadiano dalle cromature ora cupe ora brillanti, comunque sempre in tensione come frecce rivolte verso un punto fermo, verso Dio.
Come figlie del Carmelo, nel cammino diuturno della vita, coltiviamo la certezza che la comunione comunitaria è generata e rigenerata dal seme incorruttibile della Parola di Dio viva ed eterna ascoltata, meditata, masticata costantemente. Costatiamo che la comunità, per vivere secondo il vangelo, ha bisogno di un ambito di fede che connoti la lettura degli eventi e fondi ogni rapporto umano. Infatti scrivendo e leggendo le pagine del suo diario, la comunità si accorge che ogni relazione viziata da caratteri non evangelici, sfumata da affinità e simpatie, incrinata da bisogni di affermazione e autosufficienza, indebolità da visoni egocentrice a lungo andare inceppa o blocca il cammino di sequela personale e inevitabilmente ingrigisce il clima comunitario.
Tuttavia, ogni giorno facciamo l’esperienza della nostra e altrui debolezza, ogni giorno veniamo sfiorate, sviate o abbattute dalla tentazione del giudizio, ogni giorno attraversiamo le strettoie del limite delle differenze individuali, ogni giorno sentiamo il nostro passo frenato da incoerenze o instabilità. La vulnerabilità è un dato con cui fare i conti ogni giorno, una condizione a volte vissuta come limite, come ferita, altre come grande occasione, come varco per permettere alla Grazia di entrare nel nostro cuore, di incontrarci nei nostri smarrimenti, di raggiungerci come acqua ristoratrice su zolle di terra arida a patto che decidiamo di scendere umilmente fino agli abissi della nostra fragilità, di riconoscere onestamente davanti a Dio, a noi stesse e alle sorelle la nostra insufficienza ontologica e accettarla senza illusioni. . (“Ho trovato Dio il giorno in cui ho perduto di vista me stessa” dirà Santa Teresa d’Avila). É un cammino arduo dall’io individualista e centrato su se stesso, al cuore trapiantato nel cuore di Cristo, cammino grazie al quale, proprio nei momenti di maggiore oscurità, si sperimenta, con più vigore, la comunità come proprio corpo, come il tutto di cui si è parte e senza il quale non ci si riconosce, non ci si sente interi, integri, come il tessuto di cui si è trama, come luogo della propria metanoia, come compagnia vincolata da un’alleanza in e con Dio, come luogo in cui il sentire comune, già dentro al limite, è aria di eternità. Così il Carmelo, metafora del pellegrinaggio interiore, è salita verso quel bonum del fratelli che vivono insieme (sal 133), testimonianza tenue, accesa appena dallo sguardo di Lui per il quale il poco vale quanto la più grande opera purché fatto in “ossequio di Gesù Cristo”.

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