Che fai qui Elia?

 

 

Che fai qui Elia?

Meditazione su 1Re 19,1-21

Che fai qui, Elia? E’ la parola che il Signore rivolge per ben due volte (1Re 19,9.13) al profeta dopo che egli, avendo camminato 40 giorni e 40 notti, giunge presso il santo monte dell’alleanza. Che fai qui? E’ quello che il Signore potrebbe dire a ciascuno di noi, raggiungendoci nei luoghi e nei tempi dei nostri cammini personali. Che fai qui? E’ ancora una domanda, ma una domanda che non serve a Dio per sapere ciò che Egli già conosce, ma per focalizzare il punto in cui Egli stesso vuole incontrarci nella nostra anima. Ricorda per certi versi la domanda che Dio fa ad Adamo nel giardino dell’Eden: Adamo dove sei? Lì per chiedere dove era finito il suo rapporto con Dio stesso, il suo rapporto con il suo creatore e padre, per incontrare in definitiva il progenitore nel punto in cui si era smarrito, nel ‘luogo’ della sua anima – perdonate la banalità dell’immagine – ove Egli desidera incontare Adamo. Per il progenitore il luogo pulsante della sua anima e causa delle sue azioni nei confronti di Dio – il nascondersi – era il peccato di disobbedienza. Per Elia qual’è? se riusciamo a comprendere questo riusciremo a comprendere anche la domanda di Dio ed il modo in cui Egli desidera incontrare la sua creatura, universalmente.
Per rispondere a tale domanda dobbiamo tornare indietro nel brano, all’inizio del capitolo 19 del Primo libro dei Re. Ivi il profeta, dopo aver sgominato l’idolatria del popolo ed aver eliminato – secondo le prescrizioni della legge, coloro che lo avevano contaminato con tale infedeltà – si tratta dei profeti di Baal – apprende che la regina Gezabele intende ucciderlo. A questo punto il racconto biblico ci riferisce che egli ha paura e, dopo aver lasciato il suo servo nella città di Bersabea, fece un giorno di cammino nel deserto rifugiandosi sotto un ginepro e chiedendo la morte: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri» (1Re 19,4). Ma perché il profeta Elia chiede la morte? Anche la reazione di Elia ci riporta al racconto del peccato generico, ove Adamo, ebbe paura e si nascose. Qui Elia ha paura e si nasconde dalla perfida regina. Egli teme per la sua vita, ma forse ciò che gli viene a mancare in questo momento è qualcos’altro. Egli non si sente più sostenuto, avverte di essere solo. Sembra che il racconto induca a pensare che lo stesso profeta non abbia neanche più la forza per chiedere aiuto a Dio. Chiede solo la cessazione della sua vita. E’ questa la prima strana contraddizione: egli scappa dalla regina per timore della sua vita, e dopo poco chiede al Signore che questa cessi. Egli sembra aver smarrito la forza che lo aveva condotto a compiere il grande sacrificio davanti al popolo sfidando contemporaneamente tutti e 400 i profeti di Baal e poi giustiziandoli con l’aiuto del popolo. Sembra proprio che egli abbia smarrito la vocazione.
In quel momento l’unica cosa che fa Dio è accogliere il suo sfogo e mandargli un angelo a nutrirlo a causa della sua grande debolezza. Il pane degli angeli che gli viene somministrato – che tanto ricorda quello eucaristico – è ciò che comincia a ridargli forza. Ma a ben guardare non soltanto quello, o meglio, non inteso soltanto come pane. Una volta mangiatolo la prima volta Elia si rimette sul suo giaciglio a dormire, ancora in questo stato depressivo. Gli manca il movente, egli non avverte più la sua missione. A conferma di ciò osserviamo che Dio manda nuovamente il suo angelo a nutrire il suo profeta, ma questa seconda volta non soltanto con il pane, bensì anche con un invito della sua Parola: «Su mangia, perché è troppo lungo per te il cammino» (1Re 19,7). Da quel momento il racconto biblico mostra una evidente svolta: «con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb» (1Re 19,8). La forza anche quel cibo gli aveva conferito ridona ad Elia l’ardore della sua missione. Non gli viene e indicato dove andare, ma egli si reca al monte di Dio, l’Oreb. Di quale cibo si tratta? certamente il pane, figura del pane eucaristico. Ma anche la parola che Elia accolta da Dio. Anche quella è cibo per l’uomo. Anzi. E’ la Parola sotto forma di pane o lettera che nutre l’animo umano. Non si fa fatica a capire come questo possa essere concepito dalla Scrittura. E’ proprio la testimonianza di Mosè che, ricordando gli eventi dell’Esodo, istruisce il popolo: «non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio», è lo stesso Gesù che lo riporta come parola divina rispondendo alle tentazioni di Satana sempre nel deserto. Ed ancora nel deserto di Samaria, presso il pozzo di Giacobbe, Gesù interrogato dai suoi discepoli sulla fame afferma: «mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34). La parola di Dio viene dunque misteriosamente associata nella sua efficacia al deserto. Questo deve farci riflettere, ma abbiamo da proseguire il cammino con Elia.

Il profeta infatti, ripreso vigore ritorna a camminare. Sua direzione è l’Oreb. Il monte dell’alleanza di Mosè con Dio, il monte sacro della rivelazione divina. Il punto in cui Israele è costituito come popolo. Indubbiamente l’Orbe ha una valenza per tutto il popolo di Israele e per la restaurazione dell’alleanza che Elia è chiamato a compiere in nome di Dio. Ma accanto a questo, e prima di questo, il cammino verso l’Oreb è per Elia cammino per riscoprire la sua vocazione. Il suo momento di difficoltà ha avuto radice nello scoraggiamento più che in una minaccia di morte che gli proveniva dall’esterno. Come sempre accade le nostre paure non provengono da fuori, ma da dentro di noi. Gli altri possono certamente farci del male, infliggerci sofferenze anche molto profonde, ma nessuno può arrivare a destabilizzarci se non abbiamo una ferita interiore che sanguina. E, dal momento che tutti ce l’abbiamo, è importante riconoscerla al nostro interno più che fare lotta all’esterno.

In questo momento Elia, rinvigorito dalle sue paure, può finalmente ascoltare la voce di Dio. Questi gli chiede: Che fai qui, Elia? Il Signore vuole incontrare il profeta sul suo punto dolente, su ciò che lo ha scoraggiato gettando a terra, come ha voluto incontrare Adamo su ciò che lo aveva gettato nella paura fino a farlo nascondere. Che fai qui? è dunque la domanda di un Dio che si fa vicino al profeta nella sua ferita – seppur rimarginata dalla sua grazia – e gli chiede di raccontarsi in relazione a quella. La risposta di Elia è la dimostrazione di come la parola di Dio possa essere sanante: «Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita» (1Re 19,10). In questa risposta c’è tutta la vita del profeta: la situazione di infedeltà Israele e l’amara solitudine – sono rimasto solissimo traducono i LXX – del profeta che cerca di mantenersi fedele. Questi però non è più affranto e depresso. Ora è pieno di zelo per il Signore degli eserciti. Ora che il profeta è in grado di ascoltare la voce del Signore questi gli chiede di fermarsi alla sua presenza.

A ben guardare, infatti, l’esperienza centrale di Elia non è tanto quella della parola che il Signore gli rivolge, ma la misteriosa esperienza della sua presenza. Non che ci sia differenza tra la rivelazione nella Parola e nell’epifania portentosa, ma c’è una diversa comunicazione della rivelazione. L’analogia con la rivelazione a Mosè è evidente, soprattutto nell’azione del profeta di coprirsi il volto al passaggio del Signore, ma in questo caso Dio stesso si mostra in una maniera inattesa per il titolo stesso con il quale Elia lo definisce. Dio non è nel vento impetuoso, non nel terremoto, non nel fuoco. In nessuna di queste portentose, distruttive e imponenti manifestazioni è il Signore degli eserciti. Questi si manifesta in un mormorio di vento leggero. Anche qui il Signore ha un insegnamento per Elia. Vi è un forte contrasto tra il suo stato d’animo – ormai zelante – e la manifestazione del Signore, del tutto dissimile alla rivelazione sullo stesso monte fatta a Mosè. Il fuoco del roveto, o le manifestazioni terrificanti del Sinai fatte a Mosè sono qui sostituite da una rivelazione molto più vicina a quella neotestamentaria, a detta delle stesse parole della Lettera agli Ebrei. Essa presenta una voce di aura sottile (φωνὴ αὔρας λεπτῆς) che intende esprimere qualcosa di molto profondo. Molti pensano che il brano evochi il modo tipico della rivelazione divina. A ben osservare, invece, quest’ultima può avvenire nei più disparati modi, perché Dio non è vincolato a manifestarsi in una modalità precisa. L’esperienza neotestamentaria di Paolo – o dello stesso centurione ai piedi della croce – ne è conferma.

Che significa questo? significa che – anche nello zelo che Elia ha ripreso – Dio non è quello che abbiamo nel cuore. Dio è sempre altro, non racchiudibile in uno schema o in un nostro pensiero o in una strategia. La risposta del Signore al profeta ne é chiara testimonianza: Io poi mi sono risparmiato in Israele settemila persone, quanti non hanno piegato le ginocchia a Baal e quanti non l’hanno baciato con la bocca (1Re 19,18). E’ risposta alla duplice affermazione di Elia della sua estrema solitudine. Quale dunque l’errore del profeta e la causa della sua depressione? probabilmente il fatto di aver contato su Dio, ma forse in relazione al solo orizzonte a lui visibile, quasi esser stato tentato di pensare di essere l’artefice principale del piano di Dio. Il Signore gli spiega che pur essendo lui rimasto l’unico baluardo visibile della fede autentica, è sempre Dio che fa la storia, è Lui che salva il popolo, è Lui che apre strade di salvezza! Dio si serve di uomini, ma essi rimangono solo strumenti, sempre strumenti, anche quando sono eccellenti: così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare (Lc 7,10). E’ forse questo un primo tratto importante della paideia divina verso il profeta: Dio non è i nostri pensieri, non è i nostri sentimenti, anche quando sono come quelli dello zelo di Elia. Dio è oltre. La nostra vocazione è quella di scoprire il Dio presente in mezzo a noi, il Dio presente nella storia, il Dio che continua ad agire in essa. Questa è la nostra capacità profetica: la fede in un Dio presente anche quando non lo sentiamo e di un Dio altro anche quando lo avvertiamo.
Alla luce di questo prende maggior senso la domanda di Dio: che fai qui Elia? è dunque la domanda dell’altissimo che si rivolge ad Elia al cuore della sua sofferenza, ma anche della sua incomprensione. La fiducia deve esser rivolta sempre a in Dio. L’esempio è quello di Abramo, colui che ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli (Rm 1,18). Che fai qui? è dunque l’invito a non umanizzare troppo la Sua Parola, a trattarla con cura trascendente e a scoprire che fare questo è possibile solo se si scopre di stare alla sua presenza! Concedici Signore la grazia di vivere alla tua presenza vivendola con un amore che non spenga la nostra fiamma nel pantano del quotidiano nostro orizzonte di pensiero, ma che l’alimenti con lo stupore continuo della familiarità che Tu crei con noi nonostante l’abissale distanza che ci separa da te.

[1]Alleluia.

Amo il Signore perché ascolta
il grido della mia preghiera.
[2]Verso di me ha teso l’orecchio
nel giorno in cui lo invocavo.

[3]Mi stringevano funi di morte,
ero preso nei lacci degli inferi.
Mi opprimevano tristezza e angoscia
[4]e ho invocato il nome del Signore:
«Ti prego, Signore, salvami».
[5]Buono e giusto è il Signore,
il nostro Dio è misericordioso.
[6]Il Signore protegge gli umili:
ero misero ed egli mi ha salvato.

[7]Ritorna, anima mia, alla tua pace,
poiché il Signore ti ha beneficato;
[8]egli mi ha sottratto dalla morte,
ha liberato i miei occhi dalle lacrime,
ha preservato i miei piedi dalla caduta.
[9]Camminerò alla presenza del Signore
sulla terra dei viventi.

(Salmo 116, 1-9)

Di fr Emmanuel Albano, O.P

3 Commenti
  • geltrude
    Pubblicato alle 10:03h, 07 Aprile Rispondi

    Illuminante….davvero.

  • Happy Rosa
    Pubblicato alle 19:49h, 10 Maggio Rispondi

    Grazie infinite. Il lavoro mi sotraee a seguire ritiri che facevo prima a Napoli. Qui al paese e difficile trovate incontri serali x catechesi. A stendo sono riucita a trovare una chiesetta dove ho trovato l’ora di adorazione Eucaristica il sabato sera, e la domenica i preti parlano chiaro e profondo, e poi sono infinitamente innamorati dell’Eucaristia e lo trasmettono. ” diciamo, il mio piccolo ritiro”.

  • Manuela
    Pubblicato alle 22:52h, 20 Luglio Rispondi

    Non dobbiamo aver paura di ricercare momenti di silenzio e solitudine. È nella brezza leggera che soffia nel nostro cuore che Dio ci parla per darci nuova forza nel cammino della vita. È il Dio con noi e per noi!

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